Il torrentismo, come tutte le discipline che esprimono un elevato livello tecnico, ma che hanno un alto grado di accessibilità, è molto esposto al rischio di specifiche distorsioni cognitive.
Detta così, per molti lettori potrebbe significare poco. Proviamo a tradurre.
Avete presente l’atteggiamento del tipo “so tutto io”? Oppure, nella sua versione più subdola potrebbe suonare come “e che ci vuole a farlo? Io l’anno scorso ho fatto… [seguito dalla descrizione di un qualcosa di eclatante e improbabile]”
Un po’ come se fossimo uno degli “Umarell”, il classico vecchietto che osservando il cantiere ha da ridire su tutto quello che avviene al suo interno.
Ecco, stiamo parlando proprio di questo.

Dall’allenatore del lunedì al torrentista della domenica

Questo tipo di atteggiamento è lo stesso che anima le discussioni da bar del lunedì, dove tutti i partecipanti si sentono grandi allenatori nel commentare gli errori degli allenatori veri, intimamente convinti che se fossero stati al loro posto avrebbero fatto molto meglio.

Tuttavia, mentre questo fenomeno è limitato alle chiacchiere calcistiche post campionato e può essere descritto come una nota di colore, in altri campi può diventare un problema serio.

Il basso livello di consapevolezza rispetto alla complessità di un fenomeno fa apparire le cose molto più semplici di quanto siano in realtà e impedisce di rendersi conto di una serie di potenziali rischi (che rimangono invisibili fino a quando è troppo tardi). 

Nel caso del canyoning, ad esempio, scendere una cascata in corda, per quanto possa sembrare impossibile e spettacolare alla prima esperienza, con un minimo di pratica è molto semplice.

Questo significa che chi sa scendere in corda può affrontare qualsiasi tipo di percorso torrentistico? La risposta è assolutamente no.

Le situazioni cui ci si può trovare davanti sono influenzate da moltissimi parametri, sia a causa dell’ambiente dinamico nel quale si pratica, sia per i tanti diversi fattori che possono cambiare le cose in modo repentino.

Quindi questo significa che il canyoning è pericoloso?

La risposta è semplice: non più di tante altre attività umane.

Fareste guidare un aereo di linea a una persona che ha seguito un corso di formazione di una settimana, con non più di 20 ore di volo alle spalle, che però è molto bravo a fare parapendio? In un caso del genere, ciò che è pericoloso non è prendere l’aereo, ma non avere un sistema che selezioni piloti formati e con un numero di ore di volo all’attivo, sottoposti a continui controlli e con delle linee guida studiate e condivise.

Nel canyoning, che oggettivamente non ha una pericolosità maggiore di volare a 10.000 m dentro un involucro di metallo di diverse tonnellate, avviene invece molto più spesso di quanto si creda. Piuttosto, ci può essere un’assunzione di rischio – spesso inconsapevole – da parte di chi conosce l’attività perché la pratica da qualche mese ed è convinto di conoscerne e padroneggiarne tutti gli aspetti.

L’Effetto Dunning-Kruger

In psicologia questo fenomeno è ben conosciuto e ha un nome ben preciso: Effetto Dunning Kruger (DK), dal nome dei due psicologi David Dunning e Justin Kruger che per primi hanno descritto il fenomeno in termini scientifici.

L’effetto deriva da una distorsione cognitiva – definita anche come bias cognitivo – determinata da una errata percezione delle proprie e altrui capacità in uno specifico campo. Il mix micidiale si crea con una persona con un minimo livello di competenza in una data materia e un basso livello di consapevolezza rispetto alla complessità della stessa. Questo livello minimo genera una falsa percezione che, da un lato, ci fa sentire molto più esperti di quello che siamo in realtà, dall’altro ci fa apparire il reale esperto come una persona con un livello di competenza molto vicino al nostro.

Nel processo di apprendimento di qualsiasi materia, infatti, ci sono una serie di fasi attraverso cui passiamo per diventare esperti di una disciplina:

  1. incompetenza inconsapevole: è il gradino più basso dove cominciamo a conoscere l’attività o siamo in grado di parlarne in teoria, ma non abbiamo un’esperienza specifica significativa (che ci vuole a fare una discesa in corda? io sarei assolutamente in grado); di fatto non siamo consapevoli di quanto siamo incompetenti;
  2. incompetenza consapevole: nel praticare l’attività, ci si comincia a rendere conto di quanto poco ne sappiamo e di quante cose dobbiamo imparare per padroneggiare la materia (è difficile, non so se ce la farò);
  3. competenza consapevole: cominciamo a vedere gli effetti dell’apprendimento e dell’esperienza pratica, ma siamo ancora lenti e dobbiamo pensare a tutto quello che facciamo (è difficile, ma comincio a vedere i risultati);
  4. competenza inconsapevole: svolgo l’attività senza pensare nel dettaglio a quello che faccio, le decisioni e le azioni avvengono in modo fluido e naturale (sono un esperto della materia). 

Chi è sotto l’effetto DK, si trova di solito nella fase 1 (ma il fenomeno è presente fino alla fase 3), si crede più intelligente e più competente e si sente autorizzato a esprimere pareri, dare consigli e insegnare la disciplina, spesso entrando in contrasto con chi è veramente esperto.

Il dramma è che contraddire direttamente queste persone, che spesso non si rendono conto di essere sotto l’effetto di un bias, non fa altro che rafforzare le loro credenze, indicando chi gli va contro come un incompetente o un invidioso, spesso addentrandosi in prolisse spiegazioni pubbliche. Il fenomeno è oggi amplificato in modo esagerato dalla possibilità di comunicare sui social senza alcun filtro, diventando istantaneamente esperti di qualsiasi materia: dal canyoning ai vaccini, dal calcio alle terapie farmacologiche.

Nel caso del canyoning, questa distorsione colpisce sia clienti alle prime armi, sia sportivi che vogliono avvicinarsi alla disciplina e cominciano a praticare con assiduità, sia aspiranti professionisti di solito con poca esperienza alle spalle.

Il fatto che il canyoning si svolga in un ambiente ostile e con poche vie di fuga, può aumentare il livello di complessità. Di questo, tuttavia, ce ne rendiamo conto solo in caso di un evento inaspettato, spesso evitabile con un elevato livello di consapevolezza ed esperienza, ma a cui si può mettere rimedio attingendo a un patrimonio di conoscenze, patrimonio esclusivo dell’esperto.

L’antidoto

Come è possibile uscire dal circolo vizioso di questa errata percezione?

Il modo migliore è avere la consapevolezza e l’umiltà di dover percorrere una lunga strada prima di dichiararsi “esperto” della disciplina.

Nel percorrere questa strada, dobbiamo cogliere tutte le occasioni di studio e formazione che ci permettono di arrivare prima possibile al nostro obiettivo.

Vediamone alcune.

Andare in forra

Questo è un consiglio che vale per tutti: guide, accompagnatori, sportivi, appassionati. Andare in tanti canyon diversi ci permette di collezionare situazioni e fare esperienza sul campo di un ambiente ogni volta diverso, che non è affrontabile con modalità statiche. Un errore che fanno spesso le aspiranti guide è credere che nella “loro forra”, quella che hanno frequentato un milione di volte e di cui conoscono anche i sassi, sono totalmente in controllo e che tutti i virtuosismi dei grandi percorsi sono inutili, perché tanto bisogna fare le stesse cose. Per cui non serve sbattersi a fare tanti canyon o imparare troppe cose, “tanto gli ostacoli sono quelli  e li passo allo stesso modo”.

Purtroppo (o per fortuna) il canyoning non funziona così. Fino a un certo livello di difficoltà e in forre molto aperte e semplici, questo in parte funziona, ma tragedie come quelle del Saxeten e del Raganello, avvenute in forre considerate semplici e in presenza di guide e accompagnatori alle prime armi e con poca esperienza specifica di canyoning, ci dicono che non è così.

In ENGC, per stimolare le guide a formarsi continuamente, stiamo elaborando una lista di canyon che tutti i professionisti associati devono fare in un arco di tempo per avere un elevato livello di pratica e mantenere la qualifica.

Condivisione, studio e confronto

Condividere esperienze senza vergognarsi dei propri errori, può aiutare altri a evitare di fare gli stessi errori. Per fare questo, c’è bisogno di un elevato livello di consapevolezza e della capacità di analizzare in modo sereno ciò che è andato bene e ciò che invece è migliorabile.

Nessuno è esente da errori; condividere i propri permette anche ai meno esperti di capire che uno sbaglio è sempre in agguato e che è possibile imparare e migliorare da ogni esperienza.

Noi consigliamo sempre, anche in uscite tra amici, di organizzare un breve de-briefing alla fine di una forra, per confrontarsi e scambiare opinioni ed esperienze, soprattutto se il gruppo è disomogeneo o proviene da background differenti.

Ricordiamoci che è preferibile avere la possibilità di correggere tanti piccoli errori (o potenziali tali, i cosiddetti “near miss”) senza conseguenze, invece di trovarsi a dover affrontare le conseguenze di un errore importante.

Chiedere feedback

Per chi è alle prime armi o ha scarsa esperienza specifica è utile raccogliere feedback dai colleghi e dagli stessi clienti (ovviamente non sugli aspetti tecnici), prima di esprimere opinioni e commenti in merito alla disciplina. Le informazioni che possiamo raccogliere da persone con più esperienza di noi (feedback tecnico), dai nostri compagni di pari esperienza (feedback che ci riporta aspetti personali di cui non eravamo consapevoli) e da chi ci osserva come cliente o come amico (feedback spesso relativo all’impressione che diamo al resto del mondo), possono essere spesso più preziose di un corso di formazione. Attenzione, però, i feedback utili sono quelli che non ci piacciono e che tendiamo a non considerare. Essere i primi della classe ad ogni uscita, non ci permette alcun miglioramento e alcuna crescita. Cercate feedback veri, gli applausi lasciateli per le recensioni pubbliche.

Utilizzare standard riconosciuti

Per valutare l’effettiva competenza delle persone che operano come professionisti o che completano un percorso formativo è indispensabile utilizzare degli standard riconosciuti e consolidati, che permettano di dare una effettiva misura del livello di competenza. Da sola la “patacca” non è garanzia di eccellenza, ma insieme agli altri parametri indicati, quantomeno costringe chi vuole qualificarsi come professionista a seguire un iter che statisticamente dovrebbe portare il professionista a un livello superiore.

Per esempio, nel canyoning, non essendoci una regolamentazione specifica a livello normativo, come ENGC abbiamo deciso di adottare le linee guida e gli standard della scuola ministeriale francese, che ad oggi è l’unico paese che obbliga a un percorso formativo specifico, che rilascia diplomi di stato come guida canyoning, e che ha una storia di sviluppo del canyoning e un numero di praticanti circa 10 volte maggiore di quello italiano. Alcune delle problematiche tecniche e organizzative che si affrontano oggi in Italia, in Francia sono state già affrontate e risolte da molti anni. Non prendere spunto da ciò sarebbe folle.

Conclusioni

Come tanti altri bias cognitivi, anche l’effetto DK è difficile da auto-individuare, proprio perché lavora sulle percezioni interne, che diventano la nostra realtà oggettiva nel momento in cui non cerchiamo riscontro (o cerchiamo solamente quei riscontri che ci confermano la nostra idea).

Il canyoning, soprattutto se svolto a livello professionale, prevede un processo di formazione e di pratica continua che ci permette di acquisire e fortificare gli automatismi giusti, ma anche  e soprattutto di raggiungere un livello di consapevolezza che ci permette di capire i nostri limiti. 

Se vogliamo imparare l’inglese, ci affidiamo a persone che sappiano insegnare e che riteniamo in grado di sostenere una conversazione fluida con un madrelingua. 

Allo stesso modo, se andiamo in canyon con una guida, ci aspettiamo non solo che sappia guidarci e ci faccia vivere una bella giornata, ma che abbia un curriculum e un’esperienza tale da poter far fronte a situazioni impreviste di qualsiasi tipo.


Bibliografia: